lunedì 26 maggio 2014

EPISODIO 10


La Congrega dei Tredici

[di Sara Bardi]




Hurt aspettava. Selene era così in ritardo che, nel frattempo, aveva finito tre pacchetti di sigarette, e ne avrebbe di certo iniziato un quarto se non fosse stato tanto ubriaco da non riuscire nemmeno a reggere in mano i fiammiferi.
Hurt era stravaccato sulla poltrona mezza sfondata del suo ufficio, le gambe accavallate e i talloni impunemente appoggiati sulla scrivania ingombra di carte e di bollette inevase. Da quando Rosemarie era morta, l’agenzia era precipitata nel caos: la cassetta delle lettere era piena fino a scoppiare e il vaso di fiori che vivacizzava la scrivania della Lovelace giaceva a terra in frantumi.
Tutto andava in pezzi. Essere tra gli ultimi sopravvissuti della più grande organizzazione di occultisti del pianeta aveva il suo fascino, ma essere un disperato che affoga i dispiaceri nei liquori non ne aveva affatto. Ci pensava spesso, quando s’affacciava dal vetro infranto della finestra per guardare la strada, calpestando i calcinacci che ancora ricoprivano il pavimento del suo ufficio.
Stava seguendo il filo di questi pensieri quando gli tornò in mente che, in un momento di disperazione, aveva risposto a una mail di Selene. Non ricordava cosa le avesse scritto, visto che metà della posta della sua casella era stata cancellata, ma a giudicare dalla replica tempestata di smile e cuoricini aveva acconsentito ad uscire con lei.
Be', in fondo sono successe cose anche più strane, concluse con filosofia.
Quando l’orologio a pendolo batté le dieci, un senso d’inquietudine lo assalì riscuotendolo dal torpore. Due ore di ritardo… e se le fosse successo qualcosa?
Cercò Daniel con lo sguardo, ma il divano su cui il cane riposava di solito era vuoto. Ricordava vagamente che se l’era data a zampe levate dopo aver saputo dell’imminente arrivo della sua ex padrona, e che prima di uscire l’aveva apostrofato con un “Fatti almeno una doccia. Non lo dico tanto per fare un piacere a lei, ma come dovere nei confronti dell'umanità”.
Hurt si passò una mano sul viso imperlato di sudore. A calmarlo ci pensò, finalmente, il campanello. Barcollando si trascinò fino all’ingresso e aprì la porta blindata che non si era mai premunito di chiudere. Le iscrizioni in sanscrito intagliate sul suo telaio erano più che sufficienti a tenere fuori gli ospiti indesiderati... Quelli che passavano per la porta, almeno.
Il largo sorriso sul volto della ragazza sparì non appena incrociò lo sguardo di lui. “Sapevo che non potevi essere sobrio quando mi hai scritto” disse. Parve abbastanza offesa della cosa.
Hurt s’appoggiò allo stipite della porta senza staccarle gli occhi di dosso. “In effetti sono stato meglio”.
“Lo credo. Vuoi farmi entrare o continuiamo sulla porta?”
Hurt le fece svogliatamente segno di seguirlo e le disse di aspettarlo in ufficio, mentre lui andava a schiarirsi le idee in bagno. Si presentò qualche minuto dopo con i capelli gocciolanti e le capacità psicofisiche appena sufficienti per intrattenere una conversazione. Solo in quel momento realizzò che la ragazza che aveva di fronte non era più la darkettona truccata che ricordava.
Selene continuava a vestire di nero, ma indossava una bluse dal colletto arricciato e un paio di jeans senza traccia di borchie che le davano un’aria più elegante e matura.
“Hai messo la testa a posto” disse. Poi però notò il pentacolo capovolto che portava al collo.
“Non posso dire lo stesso di te” rispose lei incrociando le braccia. “Che ti è successo?”
“La mia segretaria è morta”. La sua frase echeggiò nella piccola stanza disordinata come un colpo di pistola. “E sembrerebbe che sia colpa mia”.
Selene si portò una mano alla bocca, sentendosi la gola improvvisamente secca, e Hurt abbassò lo sguardo per non dover leggere l'aria di pietà sul suo viso. Era stato chiuso là dentro per giorni a bere whisky e a piangere miseria: s’era compatito abbastanza, e non aveva avuto bisogno di nessuno per farlo.
“Ti ho promesso un appuntamento e sono un uomo di parola. Dammi solo qualche minuto” disse con un sorriso stanco, e uscì nuovamente dalla stanza per darsi una ripulita.
La ragazza rimase a fissare il vuoto per un istante. Appuntamento?, si disse. Ma di cosa stava parlando?

Il locale era immerso nella semioscurità, illuminato soltanto dalla luce tremula delle candele sui tavoli. Un murale raffigurante il calendario Maya occupava una parete e campeggiava sull’intestazione del menù che i due stavano consultando assieme, proprio come una coppietta di fidanzati. Questo pensiero dovette passare per la mente di Hurt, che sollevò lo sguardo dalla lista e sorrise divertito alla sua ospite, per poi riprendere con tranquillità il suo monologo sulla filosofia di vita degli aborigeni non-morti di New Orleans.
“Sembra che tu te la stia spassando, Jack" lo interruppe Selene. "Ma adesso dovrei parlarti del mio problema”.
L’uomo alzò gli occhi dal piatto di nachos e la scrutò sorpreso.
“Si tratta della mia nuova Congrega. Si, lo so che avevo promesso di smetterla con l’occulto, ma dopo quello che ho visto, dopo quello che hai rischiato per me, una perfetta sconosciuta…”
“Perdere l’anima di questi tempi non è la cosa peggiore che ti possa capitare" disse Hurt, allungando una mano verso la birra di lei e versandosene un mezzo bicchiere senza chiederle il permesso. "Specialmente se fai questo lavoro”.
Aveva già avuto a che fare con le cosiddette congreghe o cerchi di streghe, neopagani e wiccan, e una volta ne aveva dovuti salvare una mezza dozzina dalle ire di un’amadriade. Anche se l'amadriade, a suo parere, era dalla parte della ragione.
“Certo che è la cosa peggiore!” rimbrottò lei, altera. “Se fosse stato piacevole avresti lasciato che Baphomet si prendesse la mia. Invece hai dovuto fare l’eroe che si accolla tutte le sofferenze del mondo…”
Hurt sbadigliò, come a dire che la cosa non lo interessava poi molto. “Vieni al dunque”.
“Be', è cominciato tre settimane dopo il nostro incontro. Avevo deciso di finirla con la magia, ma mi restava ancora un sacco di materiale in negozio e ho deciso di tenere aperto ancora un po’. Sai, per ricavarci qualcosa prima di affittare il locale. È stato in quel periodo che li ho incontrati”. Selene si morse il labbro inferiore, a disagio. “Erano gemelli, pelle scura e capelli castani. Entrambi indossavano normalissimi jeans e maglietta, ma al collo portavano un monile fatto di uno strano metallo raffigurante una… una cosa.”
All'improvviso Selene si fermò, con lo sguardo perso nel vuoto. Hurt sollevò un sopracciglio in attesa che lei proseguisse.
“Non so esattamente come descriverlo, ma sembrava… un animale. Non c’erano un muso, un corpo o delle zampe che potessero farmi pensare a... be', era piuttosto una sensazione, come se fosse vivo. Come se potesse muoversi.
"I due dissero di chiamarsi Charles ed Edmund Pyke, e mi chiesero perché svendessi tutta la mia merce. Ho risposto che volevo chiudere il negozio. Sembrarono molto contrariati da quella notizia e la cosa mi sorprese perché ero sicura che non fossero mai stati miei clienti. Per evitare altre domande accampai la scusa dell’affitto troppo alto, e la cosa parve concludersi lì; ma i due si presentarono il giorno successivo e quello dopo ancora. Ogni volta compravano candele e incensi e mi chiedevano come andassero gli affari. La loro presenza m’innervosiva, se capisci cosa intendo, ma cercavo lo stesso di essere gentile.
"Il quarto giorno, cioè una settimana fa, si ripresentarono puntuali come la scadenza di una cambiale e per la prima volta mi parlarono della Congrega dei Tredici”.
Anche se la birra gli stava solleticando lo stomaco, Hurt avvertì che c’era dell'altro in opera nella sua pancia. Quel nome gli suonava familiare, sgradevolmente familiare, ma non riusciva a ricordare dove l’avesse sentito prima. “Continua”.
“La Congrega dei Tredici. M’invitarono a entrare a farne parte, sostenendo di aver sentito da subito una profonda affinità con la mia aura…”
“Le aure non esistono” la interruppe Hurt trattenendo una risata.
“Io le vedo!” insistette lei. “È il solo potere che avevo prima di trovare il libro di mia nonna, ed è stata proprio lei a insegnarmi a visualizzarle. Ti leggo in faccia che mi credi una stupida wiccan in cerca d’attenzioni, ma, indovina un po'? Non è così! I fratelli Pyke sapevano del mio grimorio”.
“E questo ti ha convinta a fidarti?” Hurt aveva assunto un tono severo. "Piuttosto doveva essere il contrario".
“I Tredici non sono un drappello d’invasati. Sono una congrega antica e potente di cui la mia famiglia ha fatto parte per molte generazioni. Non me lo sto inventando" aggiunse, indovinando dallo sguardo di Hurt che stava per obiettare. "Ho le prove. Mia nonna e sua nonna prima di lei erano le Alte Sacerdotesse”.
Hurt ci pensò su, interessato e allarmato al tempo stesso. “Si, è possibile. Ho sentito di stirpi di streghe in cui il sapere viene tramandato saltando una generazione... Ma non eccitarti troppo, perché è più facile ereditare maledizioni che doni”.
“Lo so. È per questo che tra due ore mi accompagnerai alla riunione coi Tredici”.
Per poco l’investigatore non si strozzò con un nacho.
“Come sarebbe a dire?” 
“Terra chiama Jack! È per questo che sei qui. Hai accettato tu il caso o è stato Daniel a rispondere alla mail?”
Hurt aggrottò le sopracciglia, valutando attentamente la situazione. Qualcosa non quadrava: non ricordava nulla di quello che Selene stava dicendo. Qualcun altro poteva aver risposto alla mail al posto suo, persino Daniel, visto che lui era troppo sbronzo per impedirglielo. Forse era proprio una trappola: tutte le mail, tranne l’ultima di Selene, erano state premurosamente rimosse dal suo portatile… ma poteva anche essere una scappatoia.
Stava per confidarle i suoi sospetti, ma proprio all’ultimo si morse la lingua. Se si fosse bucato le vene ne sarebbe spillata birra scura, pensò. Non poteva essere sicuro di nulla. A meno che...
Sotto lo sguardo allibito della ragazza, Hurt si sfilò il guanto dalla mano e si sfiorò la nuca. Le falangi fantasma oltrepassarono capelli e cotenna per tastare il punto in cui il midollo spinale s’innesta nel cervelletto. La scarica elettrica che gli percorse il braccio servì soltanto a confermarlo nelle sue supposizioni.
“Non capisco” disse, rimettendosi il guanto. “A quanto pare c’è qualcosa che è meglio che io non sappia”.
“Che significa?” lo incalzò Selene, tenendo ancora lo sguardo fisso sulla mano fantasma.
“Ho un Sigillo di Mnemosine impresso nel cervello. Serve a cancellare la memoria. Riconosco il mio tocco, quando lo vedo".
"Vuoi dire che sei stato tu?"
"A scriverti la mail, a far sparire la nostra conversazione dal mio computer… evidentemente avevo scoperto qualcosa sulla Congrega. Me ne avevi parlato tu?”
“Si, c’era un file allegato con…”
“Sssh! Non dirmelo. Qualsiasi cosa avessi trovato, ho fatto di tutto per dimenticarla. Forse la sbronza sarebbe bastata, ma tanto per essere sicuri devo avere usato il Sigillo. L'ho comprato qualche tempo fa al Mercato dei...”.
“Jack" lo interruppe Selene, strappandogli di mano la bottiglia di birra che nel frattempo aveva ripreso, "tutto questo è fantastico e altamente contorto, e anche un po' sexy, ma adesso che si fa?”
Il detective sogghignò, mettendo in bella mostra il dente d’oro. “Andiamo avanti come previsto. Portami nel luogo stabilito e comportati come se io sapessi cosa fare. Vedrai, andrà tutto bene. L’ho fatto altre volte”.
“E oltre ad esserti indotto volontariamente l’Alzheimer, eri anche sbronzo, queste altre volte?”
“Non me lo ricordo!" rispose il detective con soddisfazione. "Ma non è questo il punto?" Quindi, prima che lei potesse esprimere le sue perplessità, "Andiamo?” disse, sventolandole davanti al naso le chiavi della macchina.
Selene sospirò. “Siamo venuti qui con la mia. La T-bird è parcheggiata all’agenzia”.
“Ah. Giusto”.
“E comunque te lo scordi che ti lascio guidare”.

Il detective era crollato addormentato sul sedile del passeggero, così una volta giunti a destinazione Selene dovette scrollarlo per svegliarlo.
“Non sono più tanto sicura di voler entrare. Avevo chiesto la tua protezione, ma così...”
Lui sbatté le palpebre e si trascinò fuori dall’auto, mettendo lentamente a fuoco il paesaggio circostante. Erano in mezzo alla campagna e attorno a loro s’estendevano onde di spighe di grano che oscillavano al vento della sera. Il luogo designato per l’esbat era un granaio ristrutturato e riconvertito in villa, uno di quei posti per cui le star di Hollywood sborserebbero milioni.
Le luci del piano terra erano spente, ma il familiare tremolio delle candele rischiarava le finestre ad arco del primo piano.
Hurt fischiò in segno d’approvazione. “Se la passano bene, i Tredici”.
“Te l’ho detto che non sono una banda di esaltati. Edmund e Charles sanno di certo il fatto loro”.
“E gli altri undici?”
“Non li ho mai incontrati, ma i gemelli mi hanno detto che sono tutti esperti di magia cerimoniale. Credo fossero affiliati alla Golden Dawn, prima di unirsi ai Tredici”.
“La sola cosa che rispetto della Golden è l’esagramma unicursale" sbuffò l’investigatore. "È molto più figo della classica stella a cinque punte”. La seguì per le scale che conducevano al portone d’ingresso. “E comunque, nessun vero professionista verrebbe a rifornirsi nel tuo negozio, lo sai? Senza offesa”.
Lei gli fece la linguaccia, poi sollevò il batacchio d’ottone e bussò tre volte.
La porta si aprì, rivelando un atrio immerso nella semioscurità e un uomo che Selene presentò ad Hurt come il Signor Edmund Pyke.
“Sono Charles” la corresse gentilmente lui. Non dimostrava più di venticinque anni, aveva i capelli e la carnagione scura e indossava felpa e pantaloni da ginnastica.Non ci avevi detto che avresti portato un amico”.
“Oh, scusami. Vi confondo sempre, ma siete davvero identici!" Selene gli sorrise, in imbarazzo. Poi "Questo è Randolph, il mio ragazzo” disse, agguantandolo affettuosamente per il braccio.
“Spero di non essere di disturbo, ma Selene ha insistito tanto perché venissi a conoscervi”.
“Nessun disturbo” lo rassicurò Charles. “I membri della famiglia di Selene sono da generazioni parte della Congrega. Se sei il suo compagno sei anche uno di noi”.
“Se è così, stasera saremo la congrega dei Quindici, suppongo”.
“Oh, saremo molti, molti di più” ammiccò Charles con un sorriso che ad Hurt non piacque minimamente. “Ma entrate, coraggio! La vera festa è al piano di sopra”.
Il detective si chiuse la porta alle spalle e s’accostò a Selene “Randolph?” bisbigliò, senza nascondere una smorfia. “Non potevi trovare un nome migliore?”
“Ma di che stai parlando? Guarda che l'idea è stata tua”.
Hurt la guardò più confuso che mai, e cercò a fatica di recuperare quei pezzi di memoria di cui si era privato. Iniziò a scandagliare la casa sia con lo sguardo che con la sensibilità soprannaturale della mano. Pareva tutto tranquillo, non c’erano incantesimi in atto o altari gocciolanti nella sala da pranzo... Il che non era necessariamente un buon segno, perché continuava a ignorare il motivo della sua agitazione.
Charles li invitò a salire le scale e s’accodò dietro di loro. Il legno dei gradini cigolava sotto i loro passi e Hurt sentì Selene stringergli più forte la mano. Era tentato di girarsi per rassicurarla, ma temeva che il loro ospite potesse insospettirsi. Stava pensando a questo quando, arrivato in cima alla rampa, si trovò di fronte un secondo individuo in tutto e per tutto identico a Charles, tanto che in un primo momento credette che il ragazzo li avesse superati.
“Edmund Pyke” si presentò lui, esibendosi nello stesso sorriso gentile del gemello. “Non c’è bisogno delle presentazioni, signor Randolph, ho sentito quello che vi siete detti nell'atrio. Prego, accomodatevi: gli altri vi stanno aspettando”. Edmund e Charles li condussero in un ampio salone illuminato da candelabri d’argento dalle forme bizzarre, e richiusero la porta alle loro spalle. 
Lì gli altri undici membri della Congrega interruppero le loro occupazioni per scrutarli con occhi che scintillavano nelle ombre dei cappucci. Indossavano tutti una lunga tunica scarlatta, ad eccezione del capo che era vestito di nero e portava un teschio d’ariete con corna ricurve come copricapo. Era il solo a volto scoperto e la sua somiglianza con i gemelli era impressionante, se si escludevano le rughe profonde e i capelli striati di grigio. Chiunque avrebbe dato per scontato che fosse il padre dei ragazzi, ma Hurt ne aveva viste troppe per accontentarsi di queste spiegazioni. L'Alveare, ad esempio, il suo antico nemico, tra le sue fila contava anche La Sequenza, una razza di sette individui del tutto identici tra loro. 
“È un piacere averti qui. Eppure è passato tanto, tanto tempo…” disse il capo dei Tredici interrompendo il flusso dei suoi pensieri, avvicinandosi con la flemma e la solennità di un sacerdote.
Selene strinse il braccio di Hurt così forte da bloccargli la circolazione “Piacere mio…?” bisbigliò.
Il sacerdote le fece l'occhiolino. “Tua nonna aveva predetto che mi avresti condotto da lui, Selene. E così è stato. Non abbiamo dovuto fare niente”.
Hurt stirò la bocca in un sorriso storto, sentendosi addosso lo sguardo di tutti, Selene compresa.  “Ehi, è vero" provò a dire, "ne ho uccise di creature dell'Alveare, ma non mi sembra il caso di prenderla sul personale”.
“Alveare?” gli fece eco lo stregone, sollevò un sopracciglio cespuglioso, mentre gli altri membri della Congrega mormoravano tra loro.
Selene cacciò un urlo quando s’accorse che sotto tutti i cappucci si nascondeva lo stesso volto. Fece per correre fuori, ma una delle copie l’agguantò prima che varcasse la porta e la immobilizzò contro il muro.
“Lasciatela andare” disse Hurt, estraendo la pistola e puntandola alla testa del sacerdote.
“Perché dovremo farle del male, signor investigatore?" chiese lui. "La sua famiglia è fedele alla causa da tempo immemore e ci ha sempre servito bene. Ha il nostro rispetto e la nostra protezione”.
"Vi avverto!"
"Altrimenti cosa farà?"
Senza fare una piega, Hurt impugnò l’arma con entrambe le mani e piantò un proiettile nel cranio della creatura (ormai sapeva con certezza che non erano esseri umani) che tratteneva Selene. L'investigatore s’aspettava di vederlo crollare a terra, ma il ragazzo si accasciò strillando in una pozza di melma verdastra e il suo corpo si decompose a velocità allarmante, lasciando sul pavimento solo un informe groviglio di zampe e carne molliccia che emanava un fetore insopportabile.
“Ma cosa diavolo…” fece in tempo a dire Hurt prima che gli altri gli saltassero addosso. Se fosse stato ancora in sé sarebbe riuscito ad abbatterne un paio prima di essere sconfitto, ma coi riflessi rallentati dall’alcol si ritrovò disarmato e legato ad una sedia in meno di un amen.
Selene era scivolata in ginocchio, le spalle premute contro il muro e un’espressione di terrore stampata sul volto. Continuava a guardare la cosa che Hurt aveva ucciso e che fino a pochi istanti prima possedeva fattezze umane. Quell’essere sembrava sputato fuori dall’Inferno. E in quel momento ad Hurt venne il sospetto che venisse da ancora più lontano.
“Selene” disse, sperando di riuscire a distoglierla dalla macabra contemplazione di quel cadavere. “Selene, guardami!”
La ragazza dovette lottare con sé stessa per distogliere lo sguardo, ma alla fine riuscì a puntare gli occhi in quelli di lui.
“Brava, Selene. Ti metti sempre nei guai, vero? Adesso fai un respiro e dimmi come mi chiamo”.
“J-Jack Hu…” singhiozzò, troppo scossa per riuscire ad articolare qualcosa in una forma coerente.
“No, il nome che ti ho scritto nella mail!”
“Ra… Randolph Carter”.
Carter, certo. Merda.
Non si trattava affatto dell'Alveare. Il sigillo di Mnemosine avrebbe dovuto farglielo capire: non si ricorre a un incantesimo che può disintegrarti la corteccia cerebrale senza avere un motivo più che valido. E la Sequenza non era neanche lontanamente sufficiente.
“Credo che tu abbia preso un granchio, signor Hurt” disse il sacerdote, scrutandolo di sotto in su. “Non siamo interessati alla signorina Stoker. È solo con lei che volevo fare due chiacchiere”.
“Potevate telefonare”.
Randolph Carter! Almeno aveva avuto il buonsenso di dare a Selene la chiave dell’enigma. Randolph Carter era l’alter-ego letterario di Lovecraft, lo scrittore noto per essere diventato l'inconsapevole profeta di dèi dimenticati e mai del tutto morti, dormienti e più antichi dell’universo stesso.
Quello era un motivo per cancellarsi la memoria.
“Cosa vogliono gli Esterni?” chiese furente.
“Vedo che non sei stupido come pensa qualcuno". Il sacerdote si strinse nelle spalle. "Su di noi, ti basti sapere che siamo i figli di Colui la cui Prole è Innumerevole e che siamo in cerca di uno dei nostri fratelli scomparsi. E si dà il caso che tu sia la nostra unica pista”.
“Potete assumermi, se volete. Trovare persone scomparse è il mio forte. Credo di avere un buco martedì alle undici”.
“Oh, capisco perché avete stipulato un accordo" disse il sacerdote con una risata roca, estraendo un pugnale seghettato dalle pieghe della tunica. "Siete fatti della stessa pasta, tu e lui. E se tu avessi un milione di anni forse sareste indistinguibili”.
“Non so di cosa stai parlando” disse il detective a denti stretti, mentre la lama gli tagliava la guancia inondandogli la barba sfatta di un denso fiotto di sangue. Uno dei Tredici accorse ce ne raccolse un po’ in una ciotola.
“Allora impara questa lezione, signor Hurt: sempre informarsi sulle parentele di qualcuno, quando si decide di vendergli l’anima”.
Il sacerdote prese la ciotola che gli veniva offerta, si allontanò dal detective e raccolse una manciata di polvere da un recipiente sull’altare; quindi la gettò nella ciotola.
“Il demone che tu chiami Baphomet è il primo dei cuccioli del Grande Capro, il Padre e la Madre di noi tutti... L’essere che più si avvicina al Suo antico potere. Hai stipulato un patto con lui e adesso il legame che vi unisce ci riunirà al nostro fratel prodigo”.
Una densa nuvola di fumo s’alzo dal piatto cosparso di cenere e invase la stanza, e infine si diramò in decine di tentacoli. Avvolse le pareti come una creatura viva e informe, simile alle effigi palpitanti che i Tredici portavano al collo. Selene urlò, coprendosi la faccia con le mani tremanti mentre Hurt restava impassibile, calmo, fermo davanti a quella manifestazione. E l’entità concentrò la sua attenzione proprio su di lui, aprendo sulle sue spire gassose migliaia di occhi globulosi.
La cosa parlò, e il suono alieno di quella voce, simile al ruggito dell’oceano in tempesta, strappò a Selene un ultimo grido prima di farle perdere i sensi. Hurt assorbì le sue parole come una spugna, venendo a conoscenza di cose che un essere umano non dovrebbe mai sapere, e in quel momento comprese quale destino lo attendeva una volta finito nelle mani del Baphomet.
I suoi occhi divennero rossi e pieni di lacrime, tutto il suo corpo fu scosso dai brividi ed egli dovette mordersi la guancia tanto forte da farla sanguinare, per non urlare. Qualcosa dentro di lui si spezzò, forse il suo ultimo briciolo di lucidità, forse una costola, forse soltanto l’eco del rumore del vaso di Rosemarie che s’infrangeva sul pavimento. Forse era la sua memoria che all’improvviso si riallacciava a tutte le terminazioni nervose mandando il suo cervello in blackout.
I tentacoli si ritrassero, strappandogli via quel poco di forza che gli era rimasta. Sentì le palpebre farsi pesanti e prima di scivolare in un sonno buio e senza sogni pronunciò, quasi come una preghiera, il nome maledetto che nessuna bocca osa mai pronunciare. “Iä… Iä… Shub-Niggurath...”

Hurt riprese conoscenza cinque ore dopo. Il sole occhieggiava dalle finestre della villa e la stanza che aveva ospitato quella terrificante manifestazione appariva accogliente e tranquilla nella tenue luce del mattino.
L’investigatore si liberò dalle corde con cui era legato, e decise di sgranchirsi le gambe intorpidite percorrendo l’attico a grandi passi. Selene era ancora svenuta, ma il suo respiro era lento e regolare, a indicare un sonno sereno. I Cuccioli del Grande Capro non avevano mentito quando avevano detto che la ragazza sarebbe stata protetta.
Non solo Selene aveva conosciuto il nome di una Divinità dell’Esterno senza perdere la ragione, ma lo aveva persino trascritto nella lettera che per poco non aveva fatto impazzire Hurt, costringendolo a sigillarsi una fetta di memoria. Eppure eccola là, illesa e addormentata come un angioletto. Era evidente che il sangue di strega nelle sue vene la rendeva in qualche modo resistente all’orrore siderale, ma l’investigatore non poteva rischiare di farle correre mai più un rischio come quello.
Si chinò su di lei e le girò delicatamente la testa di lato, guardando per l’ultima volta le fossette delle sue guance e le ciglia nere, poi estrasse dalla tasca l’ultimo sigillo di Mnemosine che si era procurato al Mercato dei Goblin. Infine, scostandole i capelli, glielo applicò sulla nuca.
Non ci sarebbe stata un'altra Rosemarie.
Restò a guardarla mentre, ancora incosciente, stringeva gli occhi e serrava la mascella... mentre i ricordi delle ultime ore le venivano cancellati. Poi la prese in braccio, uscì dalla villa deserta aprendo con un calcio il portone d’ingresso e la caricò sul sedile posteriore della Chevrolet cartazucchero. 
Spinse l’acceleratore a tavoletta e si lasciò alle spalle i campi di grano e il magazzino ristrutturato, la mente affollata da mille pensieri... il più prepotente dei quali rimaneva quello di affondare se stesso il prima possibile dentro un barile di whisky.