lunedì 5 maggio 2014

EPISODIO 7


Jack-in-the-box

[di Marco Redaelli]




"Mio figlio ha qualcosa che non va!"
In vivavoce il tono della donna, costellato da singhiozzi, era disperato. "È diventato un altro. La sua faccia si è riempita di piaghe e pustole, e le cose che mi dice… gli insulti, le bestemmie! Fino a ieri era il bambino più dolce del mondo, e all’improvviso è arrivata tutta questa cattiveria che... che…" La donna smise di parlare e scoppiò in lacrime.
"Si chiama adolescenza" sbottò Daniel dalla sua cuccia dall'altra parte della stanza. Hurt gli fece cenno di tacere, ma ormai era tardi.
"Alvin ha sei mesi" rispose offesa la signora Dominique.
"Naturalmente". Hurt tolse il vivavoce per evitare altri commenti. "Sarò da lei entro un’ora".

C’era un crocifisso appeso nella stanza di Alvin, proprio di fianco all'armadio, e le mura erano ricoperte di una tappezzeria con motivi di animali. Un aeroplano di stoffa ondeggiava pigramente sul soffitto, e un grosso fasciatoio troneggiava in un angolo della stanza.
Nella culla al centro della camera, su un tappeto spugnoso ricoperto di peluche e giocattoli, Alvin dormiva ignaro di esser stato lasciato solo con un estraneo e un cane parlante. Hurt non si trovava a proprio agio a lavorare in presenza di una donna sull’orlo di una crisi di nervi.
L’investigatore si avvicinò al bambino, squadrandolo da capo a piedi. La sua pelle era rugosa, come quella di un anziano; tendeva a un insano colore grigiastro ed era ricoperta da bubboni e pustole. I suoi denti erano gialli e stranamente appuntiti, e i piedi guardavano dalla parte sbagliata.
"Che diavolo è?" sussurrò Daniel, in attesa sulla soglia.
"È esattamente quello che intendo scoprire" disse Hurt. Per quanto ne sapeva di medicina avrebbe anche potuto trattarsi di una malattia, ma il formicolio nella mano destra non gli lasciava dubbi: c’era qualcosa di innaturale in quel bambino.
Il crocifisso lo rassicurava su eventuali possessioni demoniache, ma era meglio esserne certi. Hurt spruzzò acqua santa sul volto di Alvin e recitò sottovoce una manciata di versi dal libro dei Salmi, senza però che la cosa sortisse alcun effetto. Si assicurò che il piccolo non fosse vittima di incantesimi bruciando un suo capello con un fiammifero; ma il fumo, invece che azzurro, si rivelò di un deludente color grigiastro. Un rapido controllo, infine, non rivelò segni di cicatrici lasciate da chip alieni.
Non rimaneva che una possibilità, quella che Hurt temeva più di tutte.
Si avvicinò all’armadio, sfiorandolo con la mano guantata. Una scossa. Dalle fessure proveniva un leggero profumo di papaveri, così dolce da essere nauseante. Ah, pensò. Eccoci di nuovo. Spalancò l’armadio e mise una sedia davanti all’anta, in modo che non si richiudesse, e incominciò a frugarci dentro, facendo attenzione a non sporgersi troppo e ignorando le lontane musiche familiari che giungevano dal fondo dei cassetti.
Trovò quello che cercava: un sudicio e malconcio berretto da notte a misura di bambino, di un bel rosso acceso. Se lo infilò in tasca e levò la testa dall'armadio.
"Ho capito" disse a Daniel, che lo guardava con crescente perplessità. "Scendiamo in cucina. Avrò bisogno del forno".
"Mi spieghi cosa…?"
"Doppelganger" disse l’investigatore, come se questo chiarisse tutto. Avrebbe potuto prendere il bambino in braccio e portarlo giù per le scale, ma per il momento non voleva toccarlo. Così sollevò l’intera culla e la portò con sé.
Arrivato in cucina ruppe a metà una dozzina di uova e cominciò a svuotarne il contenuto nel lavandino. Riempì i gusci di acqua, sale e rosmarino dopo averne schiacciato le punte in modo che rimanessero in equilibrio sul vassoio. Allora accese i fornelli, li ignorò, e procedette a infornare il preparato. Per finire si accovacciò sui talloni e si mise a fissare impaziente il forno.
Il neonato, che era stato svegliato da tutto quel trambusto, non si era perso una mossa di quello che aveva fatto il detective. Dopo un’ora di cottura ininterrotta si schiarì la voce.
"Parola mia" disse stridulo. "Ho vissuto duecento anni e non ho mai visto niente di più stupido".
"Non mi sento di darti torto" disse Daniel.
Hurt sogghignò, mettendo in mostra il suo dente d’oro. La prima parte del piano aveva avuto successo. Se il folletto non si fosse rivelato avrebbe potuto fare ben poco per scacciarlo: su questo il popolo di Faerie aveva regole ben precise.
Era un trucco che aveva imparato da una vecchia irlandese molto tempo prima: i folletti erano troppo curiosi per far passare un fatto tanto assurdo sotto silenzio.
"Hai deciso di parlare" disse. "Ora saresti così gentile da dirci dov’è Alvin?"
"A ovest del sole, a est della luna" cantilenò il folletto, e ridacchiò. "Lontano lontano, oltre lo specchio, in…"
Il detective sospirò e scosse la testa. Un altro motivo per cui odiava i folletti. Si tolse di tasca il berretto da notte e lo fece ondeggiare davanti al viso della creatura. "Prova a fare il furbo e questo finisce nel fuoco" disse “e porterai manette di ferro dolce fino alla fine dei tuoi giorni”.
Il folletto scattò dalla culla come un pagliaccio a molla, protendendosi per afferrare il suo berretto; ma Hurt fu più veloce. Tese il braccio e lo mise oltre la sua portata, ad appena qualche centimetro dalla fiamma.
"Oh ti prego!" disse il folletto. Trasformò il salto in una genuflessione e strisciò ai suoi piedi. "Ti dirò tutto quello che vuoi! Ho nascosto un tesoro in fondo all’arcobaleno: posso darti le chiavi! Posso insegnarti a tessere l’oro dalla paglia e a sputare monete, ma ti prego di non…"
"Ti ridarò il cappello[1]" disse Hurt, disgustato, scostando gli stivali dalle sue dita appiccicose. "Se prometti di rivelarmi dov’è Alvin. Inoltre" aggiunse, ruotando l'indice con fare da saputello, "dovrai tornare nel tuo mondo e lì rimanere in eterno".
Gli occhi del folletto lampeggiarono. "Lo giuro!" esclamò, sogghignando con aria maligna. Aveva troppi denti e troppo affilati per quella bocca da bambino, pensò Hurt. "Tornerò a casa, nel Giardino della Dama Grigia a giocare con Alvin e gli altri bambini".
Anche a distanza di anni, il solo sentir pronunciare il nome della Dama fece rabbrividire il detective. Le cantilene e il profumo di papaveri gli riempirono la mente, scacciando ogni altro pensiero.
Avrebbe dovuto aspettarselo. Contrariamente alla credenza comune, le fate non agiscono per caso.
Tornò al piano di sopra, seguito dal folletto e da un sempre più perplesso Daniel. Una volta arrivato all’armadio di Alvin vi gettò dentro il cappello. "Sparisci" disse in un sussurro.
Grosse ali di farfalla sbocciarono sulla schiena della creatura, che si precipitò dentro le ante. Una volta che fu nell’armadio si udì un suono come di un risucchio.
"Daniel" chiamò Hurt, massaggiandosi le tempie. "Alvin è stato rapito dalle fate. Dovrò recarmi a Faerie per riportarlo indietro. La buona notizia è che si lasciano sempre un portale aperto per fuggire, le troie, e in questo caso è l'armadio".
"Certo. Spezza tutte le bacchette magiche e strappa in fretta le ali, che stasera trasmettono l'ultima puntata di Supernatural”.
Hurt sorrise. "Vorrei fosse tanto facile. La Dama Grigia è antica, forse non come il mondo ma quasi, e gioca con le vite dei mortali da prima che i miei antenati nascessero... Mentre io, io sono solo Jack".
"Finora questo è sempre bastato, capo" disse Daniel rivolgendogli un ampio sorriso.
Hurt lo carezzò sulla testa, poi si chinò e raccolse da terra un pupazzetto a forma di dinosauro. "Se vedi che da lì sta per uscire qualcosa che non sono io, chiudi tutto prima che sia tardi".
Ciò detto si avventurò nell’armadio, cercando a tentoni il passaggio per Faerie. "E non preoccuparti, sarò di ritorno prima che tu possa dire Rumplestilszkin". Di nuovo ci fu un rumore di risucchio, e il detective scomparve.
Daniel rimase immobile per qualche istante, la lingua a penzoloni e lo sguardo fisso rivolto alle ante.
"Rupelslizchin" provò a dire. "Rumpelpixkin. Rumble…" Sbuffò, lasciandosi cadere sul pavimento. “Figlio di una cagna”.

C’era una volta, tanto tempo fa, un bambino che un giorno si sarebbe fatto chiamare Jack.
Jack passava la maggior parte dei suoi pomeriggi nel negozio di antiquariato della famiglia. Gli piaceva la quiete di quel posto, l’odore di chiuso e legno e lucido per mobili, e la danza della polvere nei raggi del sole. A volte faceva piccoli lavori: spolverava le fila interminabili di bambole di porcellana, o lucidava la vecchia armatura nell’angolo, o catalogava i libri antichi insieme a suo padre - e se si comportava bene riceveva il permesso di leggerne uno. Altre volte si metteva nel retrobottega e, nascosto, ascoltava le storie che raccontavano i clienti: storie di parenti morti e di eredità perdute, di orologi rotti e di foto in bianco e nero ingiallite dal tempo.
A dieci anni, Jack già sapeva distinguere a colpo d’occhio un autentico tomo ottocentesco da uno anticato, individuare la nazione di provenienza di un gioiello e riconoscere qualsiasi mostro o divinità dei quadri e delle statuette. Tutte capacità che gli vennero meno col tempo, come a volte accade quando si cresce e si dimenticano i vecchi passatempi.
L’unico amico di Jack era suo fratello minore, Charlie. Ancora non sapeva parlare bene e mischiava le f con le s, e non muoveva un passo senza il suo gattino di peluche; ma a volte Jack leggeva ad alta voce, e suo fratello gli si sedeva accanto con fare ammirato, capendo ben poco di tutto ma immaginandosi lo stesso cose meravigliose.
Un mattino Charlie iniziò a comportarsi in modo strano. Si riempì di piaghe e di pustole e passava la maggior parte del suo tempo a ridere e a strillare, impedendo alla gente di dormire. Iniziò persino a lanciare improperi e insulti a chiunque fosse tanto sfortunato di capitargli a tiro.
Poi iniziarono ad accadere fatti insoliti. Per tre notti consecutive vennero trovati dei chiodi nel letto di Charlie. Ovviamente i genitori dettero la colpa a Jack, fra lacrime e scapaccioni, e lo misero in castigo nello sgabuzzino finché non avesse imparato come ci si comportava.
Uno degli antichi libri del negozio venne trovato strappato, e i frammenti di una pagina furono rinvenuti nel cassetto di Jack; un altro giorno una lettera di una delle amiche di papà finì nelle mani della mamma, e della violenta lite che ne seguì venne ancora una volta data la colpa a lui. Era come se, dall'inizio della malattia del fratello, non ci fosse più spazio in famiglia per altri bambini.
Una notte Jack fu svegliato da una melodia proveniente dal suo armadio, nella camera che divideva con Charlie. Era la musica più bella che avesse mai sentito, di flauti e di voci angeliche, ed era accompagnata da un intenso profumo di papaveri. Stringendo la sua collana d’oro con l’effige di San Giorgio che il nonno gli aveva regalato per la comunione, Jack si fece coraggio e andò ad aprire l’armadio.
Dietro le grucce e i vestiti si allungava un sentiero, una via sotto la luna attraverso un campo di papaveri. Una parte di lui gli diceva che non avrebbe dovuto percorrerla; ma, pensava, anche se fosse sparito ai suoi genitori non sarebbe importato molto, almeno fin quando avessero avuto Charlie. Quindi entrò nell’armadio e fece i suoi primi passi nel Mondo delle Fate.
Camminò per ore. A volte il sentiero era una lunga strada di ciottoli d’oro e d’argento in mezzo a una valle di nebbie colorate, altre un labirinto dai muri ricoperti di rovi e manifesti di vecchi artisti sconosciuti, altre ancora una via di stelle fra le luci dell’aurora. Quando si trovava davanti a un bivio, Jack tendeva l’orecchio e cercava di capire da dove provenisse la musica: sapeva solo che era lì che stava andando.
Il sentiero finì in una radura in mezzo a una foresta. Gli sembrava di essere capitato in una delle vecchie foto appese in negozio: i tronchi erano bianchi e le foglie nere, e il prato e i fiori erano di un monotono colore grigiastro. Decine di bambini giocavano in quella radura, alcuni ancora colorati, e per questo spiccavano tra gli altri come fari; altri solo un po’ sbiaditi, pallidi e dai vestiti color pastello... la maggior parte, però, completamente grigia. Giocavano a palla e nascondino, mangiavano frutti sconosciuti e rincorrevano volpi e cerbiatti tra le macchie d'alberi. Jack li invidiò molto: sembrava non avessero alcun problema al mondo.
Al centro della radura, sotto un imponente albero di quercia, sedeva l’unica adulta dei dintorni. Era una donna dalla pelle color latte, che indossava un lungo vestito grigio che la faceva somigliare ad un fantasma. Portava un velo per nascondere il suo volto, e Jack immaginò che se se lo fosse tolto avrebbe visto la più bella di tutte le donne, e che forse quella visione gli avrebbe bruciato gli occhi.
Era lei a cantare la canzone che l’aveva attirato lì. Mentre cantava, la donna intrecciava fiori nei capelli di uno dei bambini colorati, un poppante che stringeva forte un gattino di peluche e si guardava intorno con fare incantato.
"Charlie!" esclamò Jack, correndogli incontro.
Suo fratello lo salutò agitando il pupazzo. "Fratellone! Sei venuto anche tu a giocare? La nuova mamma ha un albero che fa lo zucchero filato e mi ha regalato un braccialetto che mi fa correre più veloce di uno sparo! Lo vuoi provare?"
"Non capisco" disse Jack, più a se stesso che a lui. "Chi è quella?" chiese poi nervosamente, indicando la donna vestita di grigio. "E come fai tu a essere qui, se ti ho lasciato a casa che dormivi?"
"Mi chiamano la Dama Grigia" rispose la fata con voce melodiosa, accarezzando i papaveri monocromi che le crescevano attorno. "Sono la proprietaria di questo giardino. Sei venuto a giocare con me?"
La Dama Grigia rise di una  risata perfetta. Tutti i bambini smisero di fare quello che stavano facendo e lasciarono cadere a terra ciò che tenevano in mano, e iniziarono a ridere con lei. Ma la loro risata sembrava forzata, macchinosa, innaturale. Infine, quando la Dama ebbe finito, i bambini si riscossero e tornarono alle loro occupazioni.
"Charlie è qui con me" disse. "Quello a casa è uno dei miei figli. Ho preso un bambino e in cambio ne ho lasciato uno dei miei per i suoi genitori".
Jack si irrigidì. Allora era stata lei a portare il mostro a casa sua: era colpa sua se i suoi genitori continuavano a litigare, e colpa sua se era stato ingiustamente messo in punizione. Sentì la rabbia montargli in petto, e, inaspettatamente, anche l’invidia.
"Puoi stare qui anche tu, se vuoi" disse la Dama, come se gli avesse letto nel pensiero."Potrai fare quello che vuoi. Ti darò un drago che ti porterà sul lato nascosto della luna, e le chiavi di una libreria che contiene ogni libro del mondo. Vivrai per sempre in un momento di gioia, e nulla ti potrà far più sentire solo o triste o... impaurito". Gli occhi di lei si fecero una fessura, e per un attimo a Jack parve si stesse leccando le labbra. "Ti chiedo solo quattro cose in cambio: i tuoi sogni, i tuoi ricordi, i tuoi colori e il tuo futuro".
Il bambino soppesò l'invito mentre il profumo dei papaveri e le risa dei bambini glielo rendevano via via più allettante. Pensò a quello che gli veniva offerto, ma pensò anche a tutte le cose che avrebbe voluto fare nella vita e che se fosse rimasto lì gli sarebbero state negate. Non avrebbe potuto fare il pompiere, o pilotare un’astronave, o avere un cane tutto suo. E, più che a ogni altra cosa, pensò ai suoi genitori: se avevano reagito così male alla sostituzione di un figlio, come avrebbero fatto a sopportarne un'altra?
Per la prima volta nella sua vita Jack conobbe il senso di responsabilità, sotto il cui peso si sentì mozzare il fiato.
"Penso… penso proprio che tornerò a casa" si costrinse a dire, a malincuore. "E porterò mio fratello con me".
La Dama lo fissò un attimo, poi fece di nuovo quella risata simile al tintinnio di mille campanelle. "Lui è mio" disse. "Ha accettato il patto, non è vero, Charlie?"
"Io a casa non ci torno. C’è solo polvere e noia e pioggia" mugugnò il bambino. Quindi si perse dietro a una farfalla e smise di prestar loro attenzione.
"Charlie ha mangiato il mio cibo e ha giocato nel mio parco. I ricordi hanno iniziato a sbiadire dalla sua memoria, e presto ogni istante della sua vita verrà dimenticato. Inoltre non ha oro con sé, e non si può uscire dal mio regno senza l’oro... È la regola".
Jack non si chiese chi avesse fatto la regola, né mise in dubbio la sua infrangibilità. Si limitò a mostrare la catenella di San Giorgio che portava al collo.
La Dama annuì. "Tu puoi andare, se lo desideri. Ma lo vuoi veramente?" lo tentò un'ultima volta. Tese le mani e socchiuse gli occhi, poi li riaprì e gli sorrise. "Se te ne andrai perderai il nome e  il cuore ti verrà strappato dal petto, e non ci sarà altro che dolore a colmare il tuo vuoto. Invece non preferiresti restare con me, per sempre al riparo dalla crudeltà del Mondo?" La sua voce era seducente, un'antologia di possibilità e pace e giochi eterni. All'improvviso Jack si sentì più grande della sua età.
"Io voglio diventare adulto" disse, e in quel momento scoprì che era vero. Non avrebbe mai vissuto storie come quelle dei suoi libri, storie emozionanti e racconti d'avventura, se fosse rimasto in quel giardino. "E quando lo farò, tornerò a prendere mio fratello".
"Non lo metto in dubbio". La Dama Grigia sospirò, indicandogli il sentiero che portava fuori dal giardino incantato. "Quello sarà un giorno interessante per tutti noi".
Jack si guardò intorno alla ricerca del fratello, ma gli addii lo spaventavano quasi quanto lo spaventava la responsabilità. Così, riempiendosi i polmoni del profumo dei papaveri, senza aggiungere altro imboccò il sentiero di casa.

Appena fu a Faerie, Hurt prese un fiammifero e dette fuoco al dinosauro di pezza. Il fumo, di un’insolita sfumatura azzurra, si addensò in una nuvola sopra la sua testa e si incamminò a sinistra lungo la strada... Il ricordo del giocattolo che cercava il suo padrone.
Hurt lo seguì, facendo bene attenzione a prendere la giusta curva e a non uscire dal sentiero. Passò in una foresta i cui alberi avevano ragnatele al posto delle foglie, e sul fondale di un oceano su una strada fatta di coralli. Si avventurò per le tortuose stradine di un Mercato Goblin, dove ambulanti provenienti da ogni angolo del Reame strillavano per attirare l’attenzione sulla loro merce, e lì si fermò per acquistare una frittella di mele e qualche carabattola.
Infine, dopo lunghi giri che si avvolgevano su se stessi e parevano non portare a nulla, giunse alla sua  destinazione.
Il giardino non era cambiato affatto in quegli anni. Certo, i bambini erano molti più di prima, ma sul luogo aleggiava la stessa sensazione di pace e gioia di quando lo aveva visitato l'ultima volta. Per un istante provò una fitta di malinconia, chiedendosi se non sarebbe stato meglio rimanere lì quando era bambino.
"Infine ci rincontriamo" lo sorprese una voce di donna. Al solo udirla, un brivido gli corse lungo la spina dorsale. Era un brivido di piacere. "Così infatti avevo profetizzato".
Come il giardino, anche la sua signora non era cambiata. Bellissima e misteriosa, cullava fra le braccia pallide il piccolo Alvin.
"So che non sei qui per restare, anche se dentro di te lo vorresti, e non sei qui nemmeno per riportare indietro tuo fratello, cosa che sono certa vorresti ancora di più" disse la Dama, sorridendogli con fare comprensivo.
Hurt non rispose, ma la fissò con occhi di ghiaccio, si tolse la catena di San Giorgio e velocemente la mise al collo del bambino addormentato. Alla vista dell’oro la fata si ritrasse, come scottata, e lasciò Alvin fra le braccia di lui.
"Reclamo il bambino per conto di sua madre" disse Hurt. "Porta addosso il metallo del sole e così faccio io". Arricciò le labbra, mettendo in mostra il suo dente d’oro. "Non è passato un ciclo di luna e sicuramente non ti ha promesso il suo futuro. Sto giocando secondo le regole, e le Vecchie Madri mi sono testimoni".
La Dama parve non darsi troppa pena per quelle parole. "Ne hai fatta di strada" disse, accarezzandogli il braccio. Il suo tocco era lieve come un fiocco di neve. "La mia offerta è ancora valida, Jack-sorriso-di-luce. Resta qui con me. Vedo ombre nel tuo futuro, molto più scure di qualsiasi tenebra tu abbia mai affrontato. Resta con me. Dammi la tua sofferenza, e in cambio io ti donerò la mia felicità ".
Hurt la fissò negli occhi. Quante volte si era immaginato quell'offerta? Quante volte aveva voluto dare la risposta che il suo corpo stanco e la sua mente gli imploravano di dare, e fuggire dalla scatola di dolore in cui aveva chiuso il suo cuore per tutto quel tempo?
"Non posso" disse, a denti stretti. "Ho delle responsabilità". Si riscosse e le sorrise. "Ma tornerò. Tornerò con una spada di ferro e ti distruggerò, mia Dama, liberando tutti i bambini che tieni prigionieri".
La Fata sbuffò. "Del tuo ritorno sono certa" disse freddamente. "Ma ti devo avvertire: se mi ucciderai, i bambini che sono qui sprofonderanno con me nell'oblio".
Hurt corrugò la fronte, poi annuì. "Mi inventerò qualcosa, allora. Lo faccio sempre".
Lei fece quella risata che, in fondo all’anima, Hurt aveva sempre sperato poter ascoltare di nuovo. "Allora ti aspetto. Ci sarà sempre un posto per te nel mio giardino magico, o affascinante Jack".
Il detective serrò la mascella e, con Alvin al sicuro tra le sue braccia, si voltò per ripercorrere il sentiero.
Poco prima di andarsene incrociò la strada di uno dei bambini che giocavano nel giardino. La sua pelle era del colore della neve e i vestiti di un uniforme color grigio. Lo urtò per sbaglio, facendogli cadere ciò che teneva in mano.
Il detective si chinò e lo raccolse. "Tieni, ecco a te" disse, porgendogli un gattino di peluche.
Il bambino gli rivolse un sorriso gentile ma spento. "Grazie, signore" disse. Prese il pupazzo e tornò a giocare con gli altri.
Ormai da tempo Hurt aveva capito che non avrebbe più potuto salvare suo fratello. Le regole erano chiare, e non importava quante altre persone salvasse o quanti mostri sconfiggesse: non sarebbe bastata una vita per compensare quella mai vissuta di suo fratello.
Imboccò il sentiero al contrario e si tornò verso l'armadio che si trovava nella stanza di Alvin. 

Qualche ora dopo che il detective che le aveva riportato suo figlio se n'era andato, il campanello di Dominique suonò, una serie di trilli modulati a imitazione dell'Inno alla Gioia. Con premura, chiedendosi chi fosse, la donna corse nell'atrio ed aprì di un dito la porta.
In giardino c'era un uomo sui trent'anni, biondo, che le sorrise con aria amichevole.
"Buongiorno, signora Grimm" la salutò, togliendosi gli occhiali da sole. "Sono il dottor King. Se ha un minuto vorrei parlarle di suo figlio”.
“Ma…”
King non aspettò che dicesse nulla e, sfruttando la sua sorpresa, spalancò la porta ed entrò in casa. Annusò l’aria per qualche istante e fece un sorriso entusiasta, poi raggiunse la culla del piccolo Alvin e si chinò su di lui.
“I bambini sono come delle piccole calamite per lo sporco, non trova?" disse, rivolto a Dominique, che lo aveva seguito in casa indecisa se chiamare aiuto o meno. "Pidocchi. Fango. Polvere di fata, quando ficcano il loro naso dove non dovrebbero. Conosce gli effetti della polvere di fata, signora?” Mise un dito sulla bocca della donna prima che potesse rispondere. “Accelerazione del battito cardiaco, attività onirica potenziata, disturbi dell’umore… e la crisi d’astinenza, naturalmente. Non capita di rado che i bimbi rapiti tornino dai loro carcerieri per averne ancora un po'. Una vera e propria droga, signora mia, ancora più imprevedibile per la sua natura magica. E noi non vogliamo che il nostro piccolo corra dei pericoli, non è vero?”
Dominique tentennò. "N-no?" fece, indecisa. C'era qualcosa negli occhi del dottore, qualcosa che la confondeva e le impediva di pensare con chiarezza.
King le sorrise. “Non si preoccupi, signora" disse. "Preleverò io tutta la polvere rimasta, e suo figlio non correrà più alcun pericolo. Si fidi di me. Sono un dottore”.

...

Quando il bambino che sarebbe diventato Jack tornò a casa, si chiuse l’armadio alle spalle e si ripromise di non parlare mai di quell'avventura. Scoppiò in singhiozzi, piangendo le cose perse e quelle che non avrebbe mai potuto avere, maledicendo la sua paura e insieme la sua inettitudine.
In quel momento il suo sguardo si posò sulla copia di Charlie, e d'improvviso l’odio cancellò ogni altro pensiero. Perché non aveva preso lui, invece di suo fratello? Non avrebbe avuto più sensi di colpa, in quel caso. Non avrebbe pianto e non sarebbe stato costretto a scegliere tra la dimenticanza e la vita vera. Avrebbe riso e giocato insieme alle fate, e nulla avrebbe più potuto fargli del male.
Perché non avevano preso lui?
Mise la catenina d’oro nella fodera del cuscino e si mosse in punta di piedi verso il letto della creatura. Rimase per alcuni istanti a guardarla respirare, mentre sibili e sbuffi uscivano dalla sua bocca deforme; quindi le calò il cuscino sul volto con tutta la forza che aveva nel suo piccolo corpo. La tenne ferma nonostante lei urlasse e si dimenasse, ignorando le suppliche e le promesse di ricchezza che gli faceva.
Continuò a premere il cuscino anche dopo che il figlio della Dama Grigia aveva smesso di respirare.
Ora che il mostro se n’era andato, mamma e papà sarebbero tornati a volergli bene.





[1] I folletti che superano la Soglia ed entrano nel mondo degli umani nascondono la loro magia in un cappello: se questo viene distrutto, il suo proprietario perde tutti i poteri [N.d.C.].