Il caso Shaw
[di Stefano Mazzoni]
La giornata si stava dimostrando fiacca. Hurt, chiuso nel suo ufficio
al terzo piano, si sistemò un ciuffo dietro l'orecchio e afferrò la pistola. La
smontò e iniziò a pulirla, come gli era stato insegnato molti anni prima, nell'esercito; quell'atto meccanico, che pur aveva ripetuto molte volte, lo
aiutava a distrarsi. I suoi pallidi occhi azzurri seguivano con attenzione i
movimenti delle mani. Versò qualche goccia di lubrificante nella canna e iniziò
a strofinarla con uno scovolo. Dopo una decina di scovolate alzò la canna verso
la lampada e controllò fosse pulita; quindi raccolse uno stiletto con attaccata
una pezza di cotone e si preparò a tamponarla.
Una spia brillò sul telefono dell'ufficio. Hurt posò la pistola e
pigiò un bottone. La voce della segretaria, Miss Lovelace, gli giunse, appena
un tantino metallica, dall'altra stanza: se avesse attaccato il telefono
avrebbe potuto sentire direttamente quello che diceva.
"C'è un cliente" disse. "È un po' strano, ma sembra a posto. Lo faccio passare?"
"Certo" disse Hurt. Si sbrigò ad infilare la pistola in
un cassetto e si dette un'aria impegnata, aggrottando la fronte e studiando con
occhi socchiusi i risultati delle gare all'ippodromo. Cose che supponeva
facessero gli altri detective.
La porta si aprì e apparve un uomo alto, leggermente stempiato, con il
volto di un pallore cadaverico, che si avvicinò a passo claudicante alla
scrivania. "P-piacere, mi chiamo J-J-James Shaw" si presentò, ma non
tese la mano.
Hurt lo studiò un attimo, e all'improvviso capì cosa c'era che non
andava in lui. Si dava il caso che quell'uomo camminasse all'indietro. Quando si muoveva le gambe non si piegavano all'altezza
delle ginocchia, e i suoi piedi puntavano nella direzione sbagliata. Le spalle
tendevano all'indietro, come fossero cascanti verso le scapole. Il torace non
era tondo né piatto, ma aveva la curva leggera delle schiene scoliotiche.
Hurt spalancò la bocca. Il volto di James lo fissava dritto in faccia. Dette uno sguardo al suo collo: la pelle era tirata in pieghe oblique, e
un paio di bozzoli facevano bella mostra di sé sul lato sinistro... destro... della
gola. Aveva il collo rotto e la faccia girata di centottanta gradi.
"Vuole sedersi?" chiese Hurt, indicando con gesto vago la
sedia davanti alla scrivania.
James scrollò... oscillò la testa a destra e a sinistra in segno di
diniego. "Preferisco stare in piedi. E-e-è lei Jack Hurt?"
"È il nome sulle bollette" disse il detective.
"Spero non... spero non... spero non si lasci impressionare dal fa-fa-fatto
che sono morto" balbettò James, quasi si vergognasse del suo
stato.
"Be', lei non è il primo che vedo" provò a confortarlo Hurt,
"anche se di solito sono orizzontali".
James sembrò arrossire, o forse erano solo i fluidi corporei che gli
risalivano le guance.
"Perché non mi dice cosa l'ha portata qui?"
"Ho b-bisogno che lei ritrovi una cosa per me. I-il mio
cuore".
Hurt aggrottò le sopracciglia. "Per questo è morto? Perché le hanno tolto il cuore?"
James lo fissò, con espressione stupita. "Non sia r-ridicolo.
So-sono morto perché una macchina mi ha investito e mi ha r-rotto il
collo".
"Già, ha ragione" ammise Hurt. Afferrò il pacchetto di
sigarette sulla scrivania e glielo porse.
"G-grazie, ma in questo periodo ho qualche problema coi
polmoni".
Il detective si strinse nelle spalle. "Allora... mi vuole dire
come ha perso il suo cuore?"
"Oh, è s-semplice" disse James. "Il g-giorno della m-mia
morte, ero in questo bar. E ho in-in-incontrato questa ragazza e... Be', ci
siamo messi a parlare. Fu lei ad attaccar bottone, a dire il vero. E po-poi ci
siamo baciati. N-non mi era ma-mai successo. Mi sono i-innamorato". Un
sorrisetto compiaciuto si dipinse sul volto sghembo del morto.
Hurt pensò di aver capito dove fosse il problema. "E così le ha
fatto dono del suo cuore" disse. "Un po' insolito, per quelli della
nostra razza. Dovrebbe essere solo una metafora".
"Già e... lei sa, immagina, nell'Aldilà... nel D-Duaat..."
bofonchiò James, come se non sapesse bene da dove iniziare.
"Senza il cuore non può sottoporsi alla prova della piuma di Maat
ed essere ammesso nell'Aaru".
James tentò di annuire ma, non riuscendo a muovere il collo, sporse
leggermente da dietro la mano e alzò il pollice. "P-precisamente. Sarò
condannato nel Duaat, a meno che non venga giudicato degno".
Hurt si piegò sulla poltrona e poggiò i piedi sulla scrivania, con
fare meditabondo.
"Bene. Allora vada da lei e si riprenda il cuore. È facile. Certe
cose tendono a tornare al loro posto".
"Non posso!" singhiozzò James. Solo che, avendo la trachea spostata,
gli uscì un suono come di un uomo che stesse soffocando. "Non ricordo il
suo nome. È andato perso nell'in-incidente. E in questo stato non posso
ce-cercarla: ho bisogno di una mano. U-una mano umana". Si infilò un paio
di dita in tasca ed estrasse una manciata di pezzi da cinquanta. "Posso
pagarla!" disse.
Alla vista dei soldi l'investigatore piegò la testa e batté le mani
compiaciuto. "Caso accettato" disse. Poi, prima di alzarsi:
"Solo una cosa non mi è chiara: saranno quasi duemila anni che nessuno è più sottoposto alla prova della piuma, e lei di certo non è di origine egizia.
Cosa le è venuto in mente?"
James si strinse nelle spalle. "In vita ero un neopagano. E-ero
fedele a Thoth. Credevo sa-sarebbe stato divertente".
Una Thunderbird del '97 era parcheggiata fuori dal bar dove James,
qualche giorno prima, aveva incontrato la ragazza in questione.
Il morto aspettava in auto che Hurt tornasse. Aveva il braccio piegato
in maniera innaturale e batteva il tempo sul cruscotto. Ci impiegò un poco a
riconoscere la canzone: Lily, Rosemary
and the Jack of Hearts di Dylan.
Si domandò se il barista ricordasse la ragazza. Era la sua ultima
speranza. Si chiese se avrebbe fatto in tempo a trovare il suo cuore prima
che... Si chiese quanto tempo ci voleva perché un corpo iniziasse a
decomporsi, anche se aveva un'anima dentro. In fondo il suo cuore non pompava
più. Se chiudeva gli occhi poteva sentire i batteri dentro di lui compiere il
loro lento lavoro.
Hurt aprì la portiera dal lato del conducente. Non entrò, ma si piegò in
avanti per guardare James.
"L-l'hai trovata?" chiese il morto in tono speranzoso.
"So chi è" disse Hurt. "E so dov'è. Ti ci porto".
Voleva aggiungere qualcosa, ma sospirò e stette in silenzio. Fece per salire in
macchina quando all'improvviso si bloccò. Si tirò dritto, guardando a destra e a sinistra,
e annusò l'aria. I peli sul suo corpo si erano rizzati tutti insieme. Sbatté un
paio di volte le palpebre e si rivolse a James, sempre tenendo d'occhio
l'orizzonte.
"James, mi chiedevo... come hai convinto gli dèi a lasciarti
uscire dal Duaat?"
James stropicciò il volto in un'espressione colpevole. "Non ti ho
ma-mai detto che mi hanno la-lasciato andare" precisò.
"Bene” disse il detective in tono monocorde. “Voglio che tu ti
concentri. Sei scappato?"
James certo non provò a negarlo. "Dovevo!" disse, in tono di scusa.
"Per ri-ritrovare il mio c-c-cuore".
Hurt non disse nulla. Salì in fretta in macchina e richiuse di scatto
la portiera. Infilò la chiave nel pannello d'accensione, poi i due sentirono
una vibrazione. Forte. E un'altra. Hurt si sporse, ma non vide nessuno per
strada. Girò la chiave e dette gas.
"Merda" disse, mentre la T-bird sgommava in mezzo alla carreggiata.
"Woo, cowboy!" disse James, cercando di
afferrare la maniglia della portiera. "V-vai più piano! Sei fortunato che non
ci sia n-nessuno per strada!" Poi "P-perché non
c'è nessuno per strada?" chiese.
Hurt ignorò la domanda. "Ti hanno mandato qualcosa
dietro" disse. "Per riportarti nel Duaat. Avresti dovuto
pensarci".
"C-cosa?" chiese James, girando quanto poteva la testa.
"Qualcosa di grosso".
Un'altra vibrazione, come una scossa
di terremoto, fece sobbalzare l'auto, e Hurt sterzò in una via a senso unico.
James stava per dirgli qualcosa quando si ricordò che non c'erano altre macchine.
"L'Ammit" disse Hurt.
Il morto strabuzzò gli occhi e si sentì gelare. "Il
Divoratore?"
Hurt non rispose e tagliò per il marciapiede.
"Dove stiamo andando?" chiese James, cercando di sovrastare
il rumore del motore.
"A trovare il tuo cuore. Quando l'avrai tornerai nel Duaat e dimostrerai
la tua innocenza. Spero che allora l'Ammit ti segua".
"E cosa succede se non riesco a..." cominciò James, ma un
pezzo di grattacielo piombò sulla strada e costrinse Hurt a sterzare. Un'ombra
li ricoprì per un attimo, ma James non fece in tempo a vedere cosa la stesse
proiettando. Puntarono a un incrocio, poi in una via laterale, sperando di
seminarlo. La terra tremò. Sbandarono per evitare un'impronta di ippopotamo. A
quel punto James pensò lo avessero distanziato, ma da dietro un edificio spuntò
la sagoma del Divoratore.
Era grosso come un palazzo di tre piani, e lungo quanto due autobus.
Girò il suo enorme muso di coccodrillo incorniciato da una folta criniera, spalancò
le fauci e ruggì, e il caldo fetore delle paludi del Basso Egitto rischiò di
soffocarli entrambi. Con un'enorme zampa di leonessa cercò di ghermire la loro
macchina, ma Hurt fu svelto a schivarla e, passando sotto le sue zampe - quelle
anteriori di leonessa, quelle posteriori di ippopotamo - gli sgusciò alle
spalle e continuò la corsa. Il Divoratore ruggì di frustrazione e cercò di girarsi: le sue natiche colpirono un grattacielo, raschiando via parte degli
uffici e causando un crollo interno nella struttura. Le rovine rimbalzarono sulla sua pelle e caddero
sulla strada.
L'Ammit partì alla caccia.
L'Ammit partì alla caccia.
"Più veloce, più veloce!" gridò James senza più balbettare.
"Sto facendo del mio meglio" rispose il detective pigiando fino in fondo l'acceleratore.
Il Divoratore li sorpassò in quattro balzi, si girò e spalancò le
fauci. Hurt sterzò, faticando a mantenere la presa sulla strada; ma il
Divoratore sporse una zampa e colpì la fiancata della macchina. La T-bird finì in testacoda e si fermò dopo alcuni metri
davanti a una porta automatica. Hurt spinse James fuori dalla macchina e rotolò
via pochi secondi prima che il Divoratore la schiacciasse con la sua zampa. Afferrò
il suo cliente per la collottola e lo guidò oltre la porta automatica, urlando.
Dentro tutti li stavano fissando. James continuò a urlare per un
po', prima che Hurt lo colpisse e richiamasse la sua attenzione sul posto in
cui erano finiti. Era un ospedale, con infermieri preoccupati e malati in
vestaglia o sulla sedia a rotelle che li squadravano sorpresi.
Un degente con le cuffie nelle orecchie li superò e fece per uscire.
James tentò di afferrarlo, ma a un segno di Hurt rimase fermo. Guardò
fuori: c'erano persone e medici, e persino la Thunderbird intatta, ma nessun
segno del Divoratore. Si girò verso Hurt per chiedere spiegazioni, ma quello si
era già allontanato verso il banco delle informazioni.
"Scusi, qual è la camera della signorina Snow?" chiese
all'infermiera di turno.
In quel momento James ricordò: ricordò che la ragazza di cui si era
innamorato portava i capelli biondi tagliati corti e aveva gli occhi verdi; ricordò
che sorrideva poco, quasi con imbarazzo, ma che quando lo faceva sembrava irradiare
uno strano calore tutt'attorno. Infine ricordò che si chiamava Marie Snow e che studiava per
diventare avvocato. Ricordò ogni cosa e fece per dirlo ad Hurt, ma il detective
era tutto concentrato sull'infermiera.
Quella lo stava fissando indecisa, come se non si fidasse del tutto a
dare informazioni a chi era entrato in ospedale urlando; ma poi qualcosa
mutò sul suo volto, sorrise e gli indicò il reparto e la stanza.
"Grazie" disse il detective, e i due si incamminarono.
"Non può raggiungerci qui. L'Ammit, dico" disse Hurt,
per riempire il silenzio dell’ascensore.
"Perché no?"
"Ci sono dei patti da rispettare. Questo luogo appartiene a Thoth
e a Ermes, a Iside e ad Asclepio e ad Apollo. È un luogo sacro, un luogo di
cura. Qui hai tutto il tempo per fare quello che sei venuto a fare".
James chiese ad Hurt perché Marie si trovasse lì. "Le è successo
qualcosa?" disse.
Il detective si strinse nelle spalle e lo invitò a seguirlo fuori
dall'ascensore. James dette uno sguardo fuori dalla finestra e vide che in
città non c'erano segni del passaggio del Divoratore.
Hurt si fermò e fece un cenno verso una stanza. James lo precedette
all'interno... vide Marie, la sua
Marie, stesa su un letto, collegata a un respiratore e a macchine che
monitoravano i suoi segni vitali.
"Quella sera... Marie è uscita di carreggiata" disse Hurt a
mezza voce. "Aveva sterzato, ma era troppo tardi. Aveva investito un
uomo che è morto prima di raggiungere l'ospedale".
James capì e la fissò.
"Credo tu possa riprendere il tuo cuore" disse Hurt. Si girò
e chiuse la porta, poi ci si poggiò contro per impedire che qualcuno li
interrompesse.
James, zoppicando, si avvicinò al corpo di Marie. Fece fatica a
piegarsi su di lei. La donna aveva i capelli scomposti, sporchi, con la
ricrescita perfettamente visibile. Per un attimo esitò, poi le sfiorò le labbra
con le sue. "Ti perdono" disse. "So che non l'hai fatto
apposta".
Alzò lo sguardo su Hurt.
"Grazie, J-Jack" disse, mentre il suo cadavere perdeva di
consistenza. "Sei stato un amico. Forse ci rivedremo nell'Aaru". Scomparve
del tutto a un cenno di Hurt, lasciando a terra solo un mucchio di banconote. Il
detective si avvicinò e le raccolse in silenzio.
"Una normale giornata di lavoro" disse a Marie, scrollando le spalle, e si accese una
sigaretta. Poi, ricordando di trovarsi in un ospedale, la spense e la gettò dalla
finestra.
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