Jack di Fiori
[di Marco
Redaelli]
“La posta di oggi” annunciò allegra Rosemarie Lovelace entrando
nell’ufficio di Hurt con un plico di lettere in mano.
Quando aveva accettato quel lavoro tutto si sarebbe aspettata fuorché
la noia della routine quotidiana. Ogni mattina la stessa storia: telefonate
cui rispondere, appuntamenti da organizzare, registri di conti da compilare. Di
tanto in tanto, certo, vi era qualche imprevisto che spezzava la monotonia (doveva
ancora finire di pulire il vestito dopo il caso della nave fantasma, e dal
giorno del caso Shaw la sala d’aspetto aveva assunto uno sgradevole odore di
decomposizione e terra che i suoi deodoranti all’eucalipto non riuscivano a
cancellare). A parte queste cose, però, le sue giornate passavano mogie fra
sbadigli e fatture.
“Nuovi casi? Alieni?” domandò Hurt, concedendole solo metà della sua
attenzione. L’altra metà era riservata a un solitario che stava giocando sul suo portatile
e che, a giudicare dall’espressione sul suo volto, non andava per il verso
giusto. “Non ho mai lavorato con gli alieni. Dio, spero si tratti di alieni”.
Hurt indossava una camicia di lino bianca, su un braccio della quale
qualcuno (Hurt stesso, si divertiva a pensare Rosemarie) aveva ricamato con del
filo rosso una J e una H trafitte da una freccia. “Un piccolo complotto
massonico, almeno?” continuò il detective in tono speranzoso.
“Peggio” ribatté lei. “Le bollette”.
Spesso si domandava cosa facesse Hurt tutto il giorno chiuso in ufficio. Di certo non lavorava.
Aveva una fornitissima libreria, è vero, con un contenuto che spaziava
da antichi grimori e bestiari a schedari delle sue più recenti imprese, ma li sfogliava
raramente, solo quando era necessario. In studio non possedeva neppure un
televisore, e l’unica radio era fissa su uno sconosciuto canale di musica
country. Aveva delegato a lei l’uso esclusivo di internet dopo il suo breve ma
intenso rapporto con il poker online.
Qualche volta lo sorprendeva a leggere la pagina sportiva di questo o
quel giornale, ma quando provava a intavolare con lui una conversazione sulle
corse dei cavalli o sul calcio riceveva risposte vaghe e confuse.
Jack Hurt sembrava non fare altro che bere whiskey di pessima qualità,
pulire ossessivamente la sua pistola e perdere tempo nei modi più disparati.
Il detective chiuse il laptop con un gesto frustrato. Decisamente non
aveva fortuna con le carte. “Ho qualche appuntamento nel pomeriggio?” chiese.
“Nulla. Fino a lunedì dovrai accontentarti della mia compagnia”.
Fra i due calò un silenzio imbarazzato, spezzato dal roteare delle
pale del ventilatore. Nonostante Rosemarie lavorasse per lui da molti mesi, il
suo datore di lavoro era per lei ancora un mistero. Non pensava nemmeno che lui
facesse apposta a tenerla distante; sospettava che fosse vissuto così a lungo da solo da aver dimenticato come ci si
comporta tra persone civili.
I due si erano incontrati per caso: lei, venticinque anni, era una
giornalista di scarso successo relegata alla sezione oroscopi del quotidiano
locale, con un piccolo problema di soldi e un problema un po’ più grande con
una macchina tipografica indemoniata; lui, detective di trentadue anni, si trovava alle prese
con un oceano di pratiche, documenti e impegni da organizzare che avevano a
lungo rischiato di soffocarlo, e possedeva una discreta esperienza in
campo di esorcismi. A conti fatti sembrava inevitabile che loro due lavorassero insieme.
Rosemarie cercò suggerimenti negli oggetti
dell’ufficio per poter intavolare una conversazione qualunque. Ma a nulla le
valsero i fiammiferi e i mozziconi che giacevano nel portacenere a forma di
gatto, né i quadri ad acquerello raffiguranti sconosciute località montane.
Stava per perdere ogni speranza quando si accorse di una foto seminascosta dietro
un paio di libri.
“E questa?” domandò, raccogliendola dalla scrivania prima che il
detective potesse fermarla.
La foto raffigurava un giovane Hurt di cinque, forse dieci anni prima.
Per Rosemarie, abituata a vederlo con i capelli lunghi fino alle spalle, fu uno
shock riconoscerlo sotto una massa di riccioli informi e un cappello da cowboy.
Di fianco a lui, con una mano sulla sua spalla, una ragazza con un giglio
tatuato sulla guancia rideva in direzione dell’obiettivo. La foto era stata
scattata di sera, in una di quelle fiere di paese tutte lucine e peluche
colorati.
“Bel cappello” commentò Rosemarie, divertita. Era la prima volta che
riusciva a scorgere uno squarcio di umanità in Hurt.
“È stata... una fase” borbottò
lui, strappandole la foto dalle mani e riponendola in un cassetto della
scrivania.
“E la ragazza? Una vecchia fiamma?” Rosemarie sospettava che, quando
non fosse impegnato a imprecare dietro alle carte da gioco, Hurt facesse strage
di cuori. C’era un’incurabile malinconia nel suo sguardo e sul fondo di ogni
sua parola, e le sue movenze erano al tempo stesso aggraziate e minacciose,
come quelle di un animale in gabbia.
“Un’amica” la corresse Hurt. “Una vecchia amica... Sebbene ci fosse
stato un momento in cui io…” Si interruppe e sembrò arrossire. “Una collega”
concluse.
“Siamo indecisi” osservò Rosemarie, scoccandogli uno sguardo ricco di
sottintesi. “Dov’è stata scattata? C’è una storia dietro?”
“C’è per forza una storia dietro. Ma non è per impicciarti dei miei
affari che ti pago”.
“La nostra agenda è vuota come il tuo portafogli. Ho sbrigato tutto il
lavoro in mattinata”.
“Sono contrario ai rapporti umani in orario di lavoro” disse Hurt.
“Fra cinque minuti sono in pausa pranzo. Quindi tecnicamente non è
orario di lavoro”.
Questo parve chiudere la questione. Il detective tirò un profondo
sospiro, e per un attimo Rosemarie temette che si sarebbe rifiutato di parlare.
Invece, complici la noia o il semplice desiderio di quattro chiacchiere, lui
annuì. “Perché no?” disse, grattandosi pigramente la guancia.
Con la mano destra, che aveva sempre coperta da un guanto di pelle,
Hurt prese una sigaretta e la accese con
un fiammifero. Ne trasse una lunga e soddisfacente boccata, roteò sulla sedia
appoggiando i piedi sul davanzale della finestra e, mentre la signorina
Lovelace si accomodava sulla poltrona riservata ai clienti, iniziò a
raccontare.
“La foto è stata scattata in un paesino delle Alpi, nel settembre del…
oh, sarà stato il duemilasette" disse, dopo un attimo di esitazione. "Il
duemilaotto, forse. Il padiglione che vedi alle mie spalle è un tiro al
bersaglio. C’era una sorta di sagra…
della birra? del paese? Qualcosa di simile. Mi trovavo lì per lavoro”.
Rosemarie annuì, sebbene fosse parzialmente delusa. Aveva sperato in
una qualche rocambolesca storia d’amore, una finestra sulla vita del suo capo;
ma sembrava non esserci altro che il lavoro, per lui. “E la ragazza?” domandò, con
poche speranze che la storia migliorasse.
“Si chiamava Lilian. La Donna di Bastoni... la Regina di Fiori, come
all’epoca la chiamavamo. Aveva qualche anno meno di me. Era appena entrata nell’organizzazione. Una novellina impulsiva con un disperato bisogno di un partner responsabile che
le facesse da mentore, e quelli l’avevano
affidata a me. A me”. Fece una
smorfia, e Rosemarie non riuscì a capire se la cosa lo divertisse o lo rendesse
furente. Sapeva che, prima di aprire il suo ufficio, Hurt aveva fatto parte di un'organizzazione
di maghi, ma non ne parlava mai, e lei aveva imparato a non chiedere.
“Io e Lilian avevamo l’incarico di distruggere una delle mostruosità dell’Alveare.
Ti ho già parlato dell’Alveare?”
“Non credo, no.”
“Meglio così. Sapevamo che la bestia aveva ucciso una guida alpina,
uno dei nostri, e così ci imbarcammo sul primo volo per l’Italia. Siamo stati
in viaggio una settimana soltanto, ma mi è stata sufficiente per conoscerla…
bene”.
“Quanto bene?” chiese Rosemarie in tono malizioso; ma Hurt la ignorò e
continuò la sua storia.
“È stata sua l’idea di fermarci a quella festa. Solo una sera, mi disse. Mi ha ingannato con la scusa di chiedere
informazioni e mi ha trascinato in mezzo alla ressa. Come potevo dirle di no?
Disapprovavo l’idea, ma i suoi occhi brillavano come luci di candele e il suo
sorriso sembrava quello di una bambina. Abbiamo provato i dolci locali e
abbiamo sbancato lo stand del tiro a segno; poi abbiamo provato tutti i tipi di
birra che c’erano. Lilian mi ha perfino comprato una bottiglia di liquore
locale a base di erbe alpine, uno degli alcolici peggiori che abbia mai
assaggiato. Ma non saranno mai abbastanza scadenti per farmi scordare..." Il
suo sguardo si fece all'improvviso vacuo e la sua voce si abbassò fino a
zittirsi. Dopo un attimo si riscosse e sorrise a Rosemarie. "Abbiamo
ballato e…”
“Fermi tutti" lo interruppe lei. "Tu hai ballato?” Trovava assurda l’idea che il suo capo, sempre
così composto e schivo, si lanciasse in balli di paese con gli stivali da
cowboy ai piedi.
“Mi chiamavano La Tigre Del Folk” ribatté lui, piccato, iniziando a
frugare nei cassetti della scrivania. “Ho vinto anche un paio di gare. Dovrei
avere le medaglie qui, da qualche parte…”
“Sei il più grande bugiardo che abbia mai incontrato” insistette lei.
Hurt le sorrise, poi si strinse nelle spalle.
“È in quel paese che abbiamo fatto questa foto. Non mi sono mai
piaciute le foto: gli aborigeni credono che ti rubino parte dell’anima, e io non
penso abbiano tutti i torti. Passano gli anni, ma rimane sempre quel pezzettino
di te, immutabile, che ti si conficca nei ricordi e fa un male d’Inferno".
Si fermò, sospirò e si tastò la camicia alla ricerca delle sue sigarette. Ma alla
fine dovette cambiare idea, e riprese. “Quella sera siamo riusciti a scoprire
qualcosa dagli abitanti del paese. Io in italiano non so biascicare più di un
paio di bestemmie, ma Lilian lo parlava come fosse di madrelingua. Scoprimmo così
che esisteva una leggenda locale su un ponte abitato da un troll.
"Il ponte unisce due cime rocciose fra le più impervie da
raggiungere, o almeno così affermava l'opuscolo... Si racconta che il troll avesse
ucciso tutte le persone che avevano tentato di attraversarlo, a meno che questi
non gli avessero offerto un sacrificio di sangue. Si trattava naturalmente di
una leggenda, qualcosa che un tempo poteva anche aver avuto un nucleo di verità,
ma che le voci di chi la raccontava avevano ingigantito. Tuttavia era già qualcosa,
e comunque noi non avevamo altro.
“Un paio d’ore passate a sbatter la testa sulle cartine e capiamo qual
è la zona del ponte; un rapido controllo all’attrezzatura e all’alba ci
mettiamo in marcia. Avevamo due zaini enormi sulle spalle e una salita infinita
davanti a noi.
“Potevo sopportare il sole battente e il freddo, la fatica, le ortiche
e lo scivolare nel fango. Quello che invece non riuscivo a sopportare era lei.
Sorrideva sempre, come se stessimo andando incontro a chissà quale avventura
invece che a cercare i pezzetti di un collega morto fra i denti di un demone.
Si fermava a guardare il paesaggio come se stessimo facendo una gita, poi faceva
le foto agli animali e mi raccontava di non so quale fidanzato e di come avrebbe
voluto sposarlo, quando fossimo tornati in America.
“Ogni volta che ci fermavamo per mangiare smontava e rimontava la sua dannata
pistola, pulendola con gran cura. Come arma non era neppure nulla di speciale,
una Smith&Wesson come quella che avevamo tutti, con l’aggiunta però di un
pacchianissimo motivo a gigli sull’impugnatura. Diceva che gliel’aveva regalata
suo padre, e che quello era un modo come un altro per ricordarsi di lui e di
ciò che aveva lasciato a casa... che esisteva anche altro oltre alla vita da
incubo che affrontavamo ogni giorno.
“Una pistola è una pistola, dico io. Si carica a proiettili, non a
ricordi. Non le Smith&Wesson, comunque. E mentre la guardavo dormire nel
suo sacco a pelo, con un sorriso ebete come di chi sta facendo chissà che bei
sogni, mi chiedevo se mai fossi stato come lei, da giovane. Non riuscivo a
ricordarlo, e a dire il vero non lo ricordo nemmeno ora. Non ricordo di essere stato giovane". Abbassò la
voce, come se stesse parlando più a se stesso che a Rosemarie. "Il mio lavoro
mi ha divorato mentre guardavo da un’altra parte, e quando me ne sono accorto
avevo perso la voglia di sorridere”.
Ci fu un’altra pausa di silenzio. Hurt guardò fuori dalla finestra con
espressione impenetrabile. La solitudine dell’investigatore sembrò spandersi in
tutta la stanza come una nube scura: Rosemarie desiderò potergli dire una
parola di conforto, o anche sfiorargli un braccio per fargli sentire che gli
era vicina. Ma la distanza fra loro pareva insuperabile, e le mani di lei, dopo
essersi sollevate per un attimo, ritornarono serrate in grembo.
Hurt si accese una sigaretta e ricominciò il racconto.
“Era il tramonto quando siamo arrivati al ponte. Sarà stato lungo
qualcosa come una trentina di metri, una struttura sospesa nel vuoto. E qui
arriva la prima sorpresa: il ponte era fatto di rose rampicanti. Vive. I
tralicci strisciavano e si contorcevano come fossero serpenti, riuscendo chissà
come a mantenere la stessa forma, rimanendo saldamente aggrappati alle due
sporgenze rocciose per non cadere nel baratro. E, in mezzo al ponte…” Si
interruppe, come se in quel momento dovesse riordinare le idee.
“C’era il troll” disse Rosemarie.
Hurt scosse la testa. “C’era quello che pensavamo fosse un troll. Un uomo ricoperto di muschio e mosso dai
rovi come una marionetta, con una corona di rose sul capo e spine che gli penetravano
nella nuca fin dentro la colonna vertebrale. Ciondolava avanti e indietro, insensibile
al dondolio del ponte, come se ne facesse parte”. Hurt si accese un’altra
sigaretta. “A volte sogno ancora la sua espressione vacua, mentre le rose gli
accarezzano il volto. Se volete
attraversare il ponte vi spareremo, diceva, e sembrava che migliaia di
bambine stessero parlando attraverso di lui. Se volete sfidarci avrete l’onore del primo colpo, ma la nostra
risposta sarà speculare.
"Povero bastardo. La carne gli si era come prosciugata,
trasformandolo in qualcosa di simile a una prugna grinzosa, mettendo in risalto
vene verdastre piene di icore che pulsavano all’unisono con l’ammasso di rose”.
“Non capisco" lo interruppe Rosemarie, confusa. "Era un
cadavere?”
“Sì e no. Il ponte era un Cavaliere Verde, un vegetale dotato di
poteri psichici che controlla altre creature per difendersi o nutrirsi.
Creature viventi e creature morte.
“Avrei preferito procedere con cautela, cercando di capire cosa fosse
e se avesse un punto debole prima di attaccarlo. Lilian invece, come tutti i
giovani, non aveva la mia pazienza. Passò da un momento di sconcerto a un
sorriso amaro, e all'improvviso non la ritenni più una ragazzina. Non avrai tempo per rispondere aveva
detto. La sua prontezza mi stupì. Poi mi guardò e mi fece l’occhiolino, come se
fosse stato tutto un gioco fra noi, e
prima che potessi fermarla fece fuoco.
“Il proiettile colpì il
cadavere a un lato della testa, facendogli saltare un occhio e scavandogli un
buco nel cranio grosso quanto un pugno... Forse per quel singolo istante ho
creduto davvero che potesse averlo ucciso.
“Ma la creatura ritrovò il suo
equilibrio, fissandomi con l’occhio sano, mentre rose e rovi andavano a coprire
il suo cervello nudo. E, come in uno specchio, ripeté gli stessi movimenti di
Lilian.
“Le sparò.
“Lei non ebbe il tempo di gridare. Crollò a terra, morta”.
“Non c’è bisogno che tu vada avanti” lo interruppe Rosemarie, scossa.
“A questo punto devo. Non mi piace lasciare le cose a metà”. Hurt
esalò una boccata di fumo. “Ora arriva la parte peggiore. Uno dei tralicci di
rose si mosse, separandosi dal groviglio del ponte e svolgendosi in direzione
di Lilian. La avvolse come avrebbe fatto un gigantesco verme, e le sue spine
penetrarono fra una vertebra e l’altra. Le girò intorno al collo, come un
cappio, e una rosa si fece largo nel suo cranio, sbucandole dall'orbita. Apriva
e chiudeva la corolla in continuazione, come un cuore pulsante o le labbra di
una vecchia zia che sta per darti un bacio che non vuoi ricevere. E, con passo
incerto, Lilian si rimise in piedi”. Rabbrividì, distogliendo lo sguardo. “Se vuoi attraversare il ponte, ti spareremo,
avevano detto i due. Se vuoi sfidarci hai
l’onore del primo colpo, ma la nostra risposta sarà speculare”.
“Io sarei impazzita” bisbigliò Rosemarie.
“Oh, l’avrei fatto. Ma, ad essere sincero, in passato mi erano
successe cose ancora più strane.
“In una frazione di secondo ho tirato fuori un piano. Un piano scarso
e con sostanziose possibilità di fallimento, ma purtroppo era l’unico che
avevo. Non potevo colpire i centri vitali delle marionette: se lo avessi fatto
sarei morto prima di premere di nuovo il grilletto. Quindi ho mirato alla mano
destra del troll e gli ho sparato. Gli ho spezzato quattro dita e l’arma gli è
caduta nel dirupo.
“Un secondo dopo il mio sparo, è stata la pistola di Lilian a far
fuoco”. Si interruppe, esibendosi in quello che sarebbe potuto essere un
sorriso di trionfo.
“Ti sei fatto colpire di proposito?” gli domandò Rosemarie. Non
riusciva a capire come facesse il suo capo a parlarne così, come fosse una cosa
da poco. “E dopo che sei stato disarmato cosa hai fatto?”
“Disarmato?” Il sorriso di Hurt si trasformò in un ghigno soddisfatto,
e in fondo ai suoi occhi brillò un barlume d’orgoglio. “Chi ha detto che sono
stato disarmato?”
“L’hai colpito alla mano e gli hai fatto saltare la pistola. Di
conseguenza…”
“Alla mano destra” specificò
Hurt. Si tolse il guanto che portava sempre sulla mano e agitò le dita in segno
di saluto. Carne e osso si mescolavano a quelli che sembravano pezzi di vetro e
ghiaccio, innestati in modo da rendere integra la mano. Quando Rosemarie provò
a toccarla, il suo dito vi passò attraverso.
“Io sono mancino” riprese Hurt, rimettendosi il guanto. “La mano del
diavolo.
“La mia sinistra reggeva ancora la pistola. La destra, invece, stava
stringendo la bottiglia di liquore che mi aveva regalato Lilian alla fiera. Il
proiettile, oltre a portarsi via qualche falange, l’aveva fatta saltare in
pezzi inondando il primo tratto di ponte.
“Ho provato a disarmare la Regina di Fiori”. La voce di Hurt tremò.
“Il primo colpo è andato a vuoto: colpa del dolore, credo, ma devo ammettere
che ero anche parecchio agitato. Ma quando ho sentito lo spostamento d’aria sul
viso dovuto al suo proiettile ho stretto i denti, ho maledetto tutti gli dei e
ho sparato una terza volta. Centro.
Mano spezzata, pistola che vola via.
“Avevo temporaneamente neutralizzato il mio nemico, ma non era ancora finita.
Mentre i cadaveri mi si avvicinavano a lenti passi sgraziati e con le braccia
protese ho estratto l’accendino e ho
cercato di dar fuoco al ponte”. Fece una pausa e giocherellò con il
portacenere, quasi in imbarazzo. “Beh, Lilian, non ci crederai, ma quel dannato
accendino non voleva saperne di accendersi. Era scarico”.
L’aveva chiamata col nome della sua vecchia amica. Rosemarie non disse
nulla, e continuò ad ascoltare.
“Prova e riprova sono riuscito a creare una piccola fiamma, ma da quel
giorno ho chiuso con gli accendini. Almeno con i fiammiferi sai quanti
tentativi ti rimangono prima di dover metter via la sigaretta.
“La fiamma ha assaggiato la pianta mostruosa imbevuta di liquore, e da
lì si è propagata in un lampo, divorando tutto il ponte. Le urla, Rosemarie,
non hai idea di quelle urla! Ho incontrato le banshee della brughiera irlandese
e le arpie sui monti della Grecia, ma quelle urla sono il suono più terribile
che io abbia mai sentito. È stato come se, mentre bruciavano, i cadaveri si
fossero liberati dal controllo del Cavaliere Verde e si fossero resi conto di
quello che stava accadendo. Gridavano e gridavano con le loro voci mentre le
rose piangevano con voci di bambina. Ben presto tutto ciò che rimaneva del
Cavaliere Verde e dei suoi ospiti erano cenere e ossa bruciate, e l’ennesima
ferita aperta nel petto del... nel mio petto”. Hurt guardò l’orologio
a muro, grattandosi il capo. “Sembra che la pausa sia finita" disse, con
voce roca. "Le mail non si leggono da sole”.
“Mi spiace. Mi spiace davvero” disse Rosemarie, riscuotendosi. “Non
avrei dovuto farti ricordare”.
“Come se potessi mai dimenticare”. Hurt le sorrise. "Penso sia stato
dopo i fatti di quel giorno che decisi di mollare l’organizzazione. Ho
aspettato un altro po’, ho lasciato che altre gocce riempissero il vaso, ma la
verità sta tutta qui. Non posso più tollerare di dividere il mio lavoro con
altre persone: va sempre a finire che qualcuno si fa male, e qualcuno soffre, e
dopo un po’ il dolore diventa tale da rubarti ogni cosa. Meglio lavorare da soli”.
Rosemarie azzardò un timido sorriso. “Con me hai fatto un’eccezione, però”.
Il detective sembrò in imbarazzo. Estrasse la pistola e iniziò a
smontarla, borbottando qualcosa sull’importanza della manutenzione.
“Fino a che ci vedremo in questo ufficio non correrai alcun rischio” disse.
“Fino a che ci vedremo in questo ufficio non correrai alcun rischio” disse.
La segretaria annuì e fece per uscire, e alle sue spalle Hurt
risintonizzò la radio su un pezzo di Johnny Cash che cantava di dolori e corone
di spine. Rosemarie si fermò sulla soglia dell'ufficio per qualche istante,
voltandosi a guardare l’arma su cui si stava affaccendando il suo capo.
Una pistola è una pistola. Si
caricano a proiettili, non a ricordi.
Fece per aggiungere qualcosa, ma si rese conto che Hurt, impegnato a
manomettere l'arma, si era estraniato dal mondo... O forse, più probabilmente,
stava fingendo per evitare che gli facesse altre domande.
Poco prima di chiudere la porta, con la coda dell’occhio, le sembrò di
intravedere un motivo a gigli sul manico della Smith&Wesson.
L’ennesima ferita aperta nel petto del Fante di Cuori.
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